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Giudizi critici e recensioni

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Guido Gerosa
Il Giorno,1985

“Corrado Calabrò è una voce che si alimenta di un lunghissimo, abbagliante sguardo. Fra ritmi surrealisti e musiche di derivazione greca antica, Calabrò ci accompagna nell’odissea della sua poesia. Ulisside appassionato il cui paesaggio è sempre dominato da una linea d’orizzonte e da un profumo di mare. Calabrò seduce con la sua prodigiosa facoltà dannunziana di assimilare tutti gli stili e le influenze. Solitudine sontuosa di corpi di donna, eloquenza robusta del verso, scoperta e teofanie di bellezze improvvise e impreviste e segrete, lampeggiare di folgorazioni inattesa. Ricerca inquieta del miracolo estetico e del valore sacro della parola intesa come vita e della vita come parola, alla lancinante scoperta del perenne profumo greco della tragedia”

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Aldo M. Morace
La deriva dei miti e la memoria dell’acqua – Si scrive, dicembre 1996

“Nessun poeta dai tempi di Montale aveva instaurato un dialogo meditativo così teso ed endogeno con l’immensità equorea, congiungendo l’angoscia e il lenimento che promanano da essa con la trafitta sofferenza – riflessa specularmente sul volto eguale e diverso del mare – per l’alterità irredimibile delle presenze femminili che trascorrono lungo tutto l’arco di questa lirica. Il mare, dunque, come Eros e come Kronos, come margine lievitante, magico-simbolico, del reale; e come rifluenza del mito, sottoposto alla forza mutante della deriva epocale. E la donna come epifania e simbolo equoreo della impossedibilità e inconoscibilità della poesia, che si rintana sfuggente in fondali sempre più cupi, quanto più viene incalzato «l’esitare dei suoi occhi»”


MARIO LUZI
Prefazione a Deriva, Il Gabbiano, Messina, 1989

“Il mare mutevole e continuo, con la divagante ma attenta odissea che vi si svolge, ricompone ogni dissidio: e il suo respiro rianima la parola.”


CARLO BO
Prefazione a Rosso d’Alicudi, Mondadori, Milano, 1992

“La vera originalità del Calabrò sta nell’essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica….Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l’idea di un mare eterno e insondabile.”



LUCIANO SATTA
La Nazione, 21 febbraio 1982

“Nella generale maestria, due sono le bravure particolari da mettere in rilievo: l’uso moderno, con accortezza, dell’endecasillabo, quasi sempre padroneggiato con ossequio alla norma eppure talora sapientemente deformato a dare inaspettate cesure, di ammirevole effetto nella lettura: e la superba impennata delle immagini figurate”



GUIDO GEROSA
Il Giorno, 1985

Calabrò insegue un sogno d’amore senza fine. E’ l’amore a dare alle sue espressioni un’intensità verbale inedita, la sensazione di un ricamo della lingua. Grida struggenti e visioni scultoree che a tratti evocano la poesia a tutto tondo di Garcia Lorca. Calabrò è molto vicino ai poeti di grande rappresentazione, a quelli che inseguono sogni di grande luce mediterranea, come il magnifico Dino Campana. L’esorcismo dell’Arcilussurgiu è un esempio di prodigiosa magia verbale, che proietta i sogni e gli amori in un laboratorio linguistico di affascinante alchimia. L’immaginazione si sfrena qui in modi di conquista barbarica, in contorsioni della fantasia, in azioni misteriche. Da Petrarca a Marino a Gongora si sviluppa qui l’arte sottile di un violatore delle parole, dei suoni e dei ritmi, che abbiglia con acrobazie verbali l’ignoto dell’espressione. Un magico predatore della parola perduta, a caccia proustiana della memoria”



GUERRINO GIORGETTI
Prefazione a Mittente sconosciuta, Ricordi, Milano, 1993

“Dotato della purezza di tocco dei lirici greci (o di un Arturo Benedetti Michelangeli), e insieme di una sensibilità modernissima, Corrado Calabrò entra nell’anima per sempre.  La donna, bellissima e sfuggente, sempre sul punto di essere afferrata e perduta, viene indagata da Calabrò nei suoi recessi con l’esattezza crudele del chirurgo e con la struggente dolcezza dei trovatori.



Piero Cimatti
Idea, 1992

“E’ un’antologia, quella di Calabrò, che talora ha i modi urgenti e taglienti di una chirurgia interiore, senza anestetici, senza pietà. Una confessione infinita. Di che cosa? Di quali colpe, omissioni, arrese, patteggiamenti col demone o coi demoni dell’esistenza? In questa poesia così colta, compromessa coi linguaggi e le specializzazioni intellettuali più raffinati del nostro tempo, la pagina di Calabrò testimonia una condizione umana a tutti comprensibile perché da tutti vissuta (eterno è poesia): in ognuno di noi è infatti avvenuta, all’origine della sua storia narrabile, quella caduta sull’asfalto, quell’inizio di esilio, quello straniamento nei labirinti della storia, che il mito di Lucifero sintetizza a priori, metafisicamente, e che i migliori poeti, i più grandi poeti, rappresentano oltre la loro personalissima avventura umana. Calabrò insegue, con una tensione sia lirica che speculativa, la propria confessione assoluta, ma intanto la rinvia e la evita con raggiri compiaciuti fino al labirinto, al doloroso manierismo dei maniaci di verità. Ed è, infine, il mare –navigato e temuto, ascoltato e mimato, accolto come metafora di liberazione e come maschera dell’abisso psicologico- è appunto il sempre mutevole mare che detta a Corrado Calabrò pagine (tese su cordami di nervi, ossessive come i suoi flussi e i suoi venti), degne davvero di figurare dopo e oltre questa raccolta in un’ideale antologia della poesia marina. Il mare, deserto di inquietudine e divinità di paura,  palpita e «pensa» in queste liriche controdannunziane: in esse il poeta dà fiato e orchestrazione a vertiginosi concerti mentali di un sentimento spietato dell’esistere, dell’amare, del tempo. In fondo alla scrittura, al limite del silenzio, c’è il divino dell’uomo. E’ solo il poeta – lui solo, fra tutti – che, talora, lo rivela e lo affronta.”



Vasco Graça Moura
Prefazione a A penúroa de ti enche-me a alma, Vasco Rosa, Lisboa 2013

“O mar de Corrado Calabrò é, ao mesmo tempo, o Mediterrâneo de tradições e reminiscências muito remotas, remontando a mitos que se perdem obscuramente no tempo, e um mar interior, espaço íntimo de divagação plácida ou de angústia irreprimível, a confluir no primeiro, encontrando-se ambos nas derivas de uma certa aspereza lexical, sobretudo nos poemas mais longos, como se às palavras também coubesse a função de escolhos que, súbita e deliberadamente, travam a fluidez do poema. Se esse mar mediterrânico proporciona a cada passo a partida e a viagem em busca do ancestral, a palavra poética corresponde também a um traçado de margens, de limites, a um perímetro de rochedos e memórias, de correntes subterrâneas refluxos projectando-se na praia e esse pode ser o lugar do humano, de um humano batido e desgastado pelas marés e pelas lunações incessantes.
Navegar, sendo a água a grande metáfora da vida e do amor, torna-se para o poeta um imperativo incontornável, em que o tempo flui convergindo nesse espaço aquaticamente ambíguo e polissémico.
O mar é risco e inconcludência, aponta a um destino de permanente interrogação, sendo que “a coisa mais perigosa é fazer lances / na ressaca, em vez de nadar”.
Esta é uma arte e uma poética da audácia e da metamorfose, do diurno e do nocturno, do transparente, do opaco e do translúcido sobre e sob as águas, do descritivo espácio-temporal do movimento incessante delas numa luminosidade que oscila entre o devaneio e a tempestade, da sua capacidade de espelhar o mundo, subitamente transformado em mundo interior, aberto à meditação amorosa e ao sentimento do tempo subjectivo e vivido a escoar-se implacavelmente, no seu confronto com uma intuição do que poderia ser “o” tempo no seu eterno prolongamento conceptual.
Corpo e geografia, tempo mítico e tempo vivido, personagens da fábula e seres reais, fidelidade e busca, Ítaca e terra natal, traçam uma coreografia e uma cartografia que são únicas na moderna poesia italiana”



SILVIA MARZANO
in Vernice, n. 50, aprile 2014

Il titolo Mi manca il mare esprime più di quel che dice: va colto nella sua eco, nella risonanza di un non detto, di un tendere a un oltre e a un illimite. A partire da una mancanza è desiderio di un altrove, di un altrove che lascia il posto a un altro orizzonte e questo ancora a un altro, come le onde del mare: “non trattiene chi nuota / altro che il sogno / del mare che ha abbracciato”. È la dimensione asintotica che caratterizza la poesia di Calabrò, tangenza tra significante e significato, come “una linea invisibile / segna l’incurvarsi del mare verso il nulla”. Quasi verso un assoluto “naturale”.
C’è in queste poesie un continuo slancio verso un altro o un oltre da sé che non è solo il mare  ma in stretto rimando, “circolare e infinito” dice Di Lieto, l’amore, la donna, altro-da-sé che rompe il circuito dell’identico e dell’egoismo come un lacaniano desiderio di desiderio dell’oggetto d’amore: “…fammi specchiare – una volta! – la tua anima / fammi varcare le linea sfuggente / tra il bisogno di credere e l’amore”, “come la notte al giorno / come il giorno alla notte mi manchi”. Oltre è anche la poesia che con un balzo, un salto di livello spiazza il linguaggio ovvio e inconsistente del caos quotidiano e in un’“onda lunga emozionale-intellettiva si condensa in un’immagine”, ci fa vedere un altro mondo, una bellezza, come nell’innamoramento prima non visibile.
Insieme al mare, alla donna e all’”inconcludenza” di entrambi, all’illimite, parole fondanti che si rinviano e si trasfigurano reciprocamente – “verde-opaco, come un mare d’alghe, / il tuo sguardo allungato / …sfuma nel transfinito il tuo messaggio” – troviamo la memoria, l’infanzia, l’origine che ritorna e si fonde con il presente, il luogo natio: “Svegliarsi e sapere che mi pensi…, / pensarti e non potere dormire…/ è come l’alternarsi / delle onde sulla battigia / tutta la notte quand’ero ragazzo / mi cullava, supino, la risacca. / Era grande il silenzio dell’estate / in quegli anni per un adolescente. / Forse davvero forse ancora in sogno / la luna dilatata dai vapori / giganteggiava nel cielo notturno”.
Il desiderio, lo streben che attraverso l’attimo presente lega passato e futuro, è il filo conduttore del volume sì che le poesie di Calabrò emergono da uno strato profondo, arcaico, preconscio. Come nella “scena onirica” e nel rapporto tra il poeta e le fantasie per Freud gli splendidi versi di Calabrò rinviano a una logica (“so e non so”, “mi pare e non mi pare”…) che non è quella del principio di non contraddizione, del logos astratto del giudizio A = A, ma ad un pensiero emozionale che cela in sé antitesi, opposti, significati contrari. Cela ma anche ri-vela dove il ri è un nuovo velare, non una verità statica, posseduta, definitiva, ma piuttosto è come il velo nel Rigveda – “da dove viene la creazione?” e come l’ἀλήυεια di Heidegger che custodisce in sé nascosta la λήυη da cui nuovi svelamenti e coprimenti. Per le antitesi e i significati contrari molto perspicuamente Di Lieto cita la bi-logica della psicanalisi freudiana di Ignacio Matte Blanco. Rimandiamo a Freud anche lo sdoppiamento (“T’amo di due amori”) e la sovradeterminazione delle metafore.
Illuminante e di ampio respiro il saggio di Calabrò Il poeta alla griglia che chiude il volume. Il titolo allude scherzosamente ma anche piuttosto polemicamente ai circoli ristretti ed esclusivi di poeti intellettuali, fabbricatori del nulla, che ignorano il bisogno di bellezza e “il meraviglioso senza il quale per Vico non ci sarebbe conoscenza”, né per Calabrò, poeta mirabilmente lirico, poesia. Ignorano cioè il dionisiaco della poesia e il νοῦς, tanto distante dall’astrazione quanto vicino, dice il poeta, a un “annusare”, o, ancora con Vico, si potrebbe dire a un sápere, avere sapore, da cui anche sapienza.
Il saggio di Calabrò è un’esegesi della propria poesia ma anche una vera e profonda riflessione sulla creazione poetica, sui motivi dell’effetto, del piacere, della seduzione estetica. Tra i molti riferimenti è notevole l’intensa meditazione, dall’interno della propria esperienza di poeta, su numerosi passi, lodevolmente citati per esteso, del libro di Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia. Il risultato è che il nostro poeta-esegeta riesce a far assistere il lettore – e in qualche misura assiste lui stesso perché come per Rimbaud “l’io è un altro”: non scrivo “per i contemporanei né per i posteri”, dice Calabrò, “…ma per un altro sé stesso” – all’emozione, all’entusiasmo, nel senso etimologico, e all’”interiore trasalimento” del momento creativo, alla “gioia” per il nascere improvviso e imprevedibile dell’atto poetico, all’intuizione, “terzo occhio, veggenza”, che si traduce in immagine. Riesce a renderci partecipi e non solo spettatori del “dono degli dei” da cui, in rari attimi dice Hölderlin, sorge la poesia e a indicarci la “massima libertà” e insieme la “massima necessità”, ananche, con cui l’opera cresce fino alla sua riuscita, quasi un ascolto, la risposta a un “dettato”, anche contro o indipendentemente dalla volontà dell’autore come scrive Wagner in una lettera a Listz. In parte questo processo può ricordare la dialettica fra forma formante e forma formata nell’Estetica di Luigi Pareyson, anche se in quest’opera non è presente un altrove, un inconoscibile, ben visibili invece negli ultimi scritti nella fisicità dei simboli poetici in un rapporto inscindibile di manifestazione e occultamento, in un contesto biblico che travalica o almeno in questo senso prescinde (dal)la grecità di Heidegger e di Hölderlin .
Le metafore “per eccesso” di Calabrò che ci trasportano in un altro mondo, e la cui sovradeterminazione è soprattutto freudiana, sono forse più vicine a Ricoeur, alla logica del doppio senso dei simboli del Conflitto delle interpretazioni e alla metafora viva, scardinamento del linguaggio ordinario e valore ontologico che (ri-)configura, in questo senso abbastanza analogamente ad Heidegger, il mondo che diviene, solo allora nella poesia, reale.
In Mi manca il mare le metafore non sono, o no sono soltanto, puntuali – semplici ornamenti o sostituzioni del nome – bensì rimbalzano in tutta l’opera come un’unica grande metafora, non senza “ritmi surrealisti”, come è stato rilevato nella breve antologia critica riportata, e una vena di moderata ironia.
Mi manca il mare è ricco di riferimenti ad altri poeti, citati o riconoscibili: Quevedo, Neruda, Lorca, Eliot; tra gli italiani Dante, Montale di Mediterraneo ricordato da Di Lieto, Campana, Pavese, Leopardi per le suggestive variate immagini della luna e altri ancora. Per la classicità antica: l’esergo di Senofonte, Pindaro, l’accenno al mito di Orfeo e i più lontani Veda. In L’esorcismo dell’Arcilussurgiu si intravede anche, sebbene in tutt’altra chiave, un’eco dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis quando infine la fattucchiera si svela con il volto della donna amata, ormai vecchia. Argomento di interessanti riferimenti è anche il rapporto tra letteratura e scienza e la necessaria apertura interculturale. Da notare in questo senso l’apporto alle neuroscienze riguardo alle pause metriche, e persino – nell’intrigante narrazione poetica di Roaming, enigmatico urto con un asteroide – l’incontro con la fantascienza: “perché non viaggiare nel tempo?”.
In conclusione Mi manca il mare è opera di grande e affascinante valore poetico e nel saggio di esegesi ha il dono raro di illuminare e coinvolgere il lettore, alla pari si potrebbe dire, nel momento vivo dell’ideazione artistica e, dal preannuncio alla sovradeterminazione, del suo farsi opera e della sua fruizione.


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