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Ovunque non sappia dai tuoi occhi


Violette
stantìe d'amore
le tue palpebre;
tristi
come il retrobottega d'un fioraio.

Non fiori, nei nostri andirivieni,
ma opere di male ricorrenti,
da Roma a Boston, da Torino a Londra.
Eh! Se avessi l'orgoglio
della maschia bellezza dei guerrieri
dei miei greci del calabro Ionio,
oh come irriderei
il tuo petto da ginecomasta,
le rasoiate sguincie dei tuoi sguardi,
la chioma fatuamente fuggitiva
e le tue lunghe gambe compiaciute,
gambe eccessive fino all'insolenza
che tornano a giocare a rimpiattino,
gambe rapinose e sibilline
tra cui s'agguatta l'inguine sfregiato.

Indugierei, accanto a mio fratello,
sulla spiaggia invasa dalle canne
dove le quaglie, mezze imbambolate,
atterrano, prima dell'alba,
in trasvolata dall'Africa.

Lì quand'è borea,
cacciatori attendono sui passi,
fino a vecchi, il falco pecchiaiuolo.
Là su costoni scheletriti crescono,
con dolcezza spinosa, fichi d'India;
e i limoni son grossi come cedri
(ma ho visto penzolare da un ulivo
un uomo cui avevano confitto
sul tronco una testa di capro).

Lì pescatori dai denti cariati
se ne stanno sgranati sugli scogli
senza perdere d'occhio lo specchio
in cui l'Ionio si mescola al Tirreno
per cogliervi, una volta nella vita,
il miraggio che coniuga nell'acqua,
l'una per l'altra, le città sorelle.

Là indugierei, tra i miei simili, o altrove:
ovunque non ritrovi nei Remainders
l'attesa smarrita degli amanti;
ovunque io non sappia dai tuoi occhi
che s'è mercificata la stagione

in cui intrecciammo le mani tremanti.

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